
Racconti della comunità
Troppo spesso capita che rimpianga la città, la confusione delle strade che ti lascia camminare senza che importi che tu dia peso ai tuoi passi. Gli occhi vagano senza che serva sforzo a vedere, sono invasi senza dovere scegliere… e ti perdi e dimentichi. Ti appartieni poco, per nulla a essere fortunati. Non serve cercare, le strade, le facce ti crollano negli occhi…
ALTRIMENTI O L’ARTE DI INVENTARE I RICORDI
La linearità di un percorso è un prodotto successivo ai propri passi, successivo agli avvenimenti. Il destino parla al passato e lo inventa. Così resta in ogni passato, in ogni percorso compiuto, un passaggio nascosto, dimenticato. Una sorta di futuro eventuale, quello che non si è compiuto o, forse, quello che soltanto in parte si è compiuto.
E questa sua presenza, che talvolta commuove e affascina, è, allo stesso tempo, indispensabile e pericolosa. È ciò che lascia compiersi il futuro e al contempo è ciò che fa esitare, distoglie lo sguardo, trattiene il futuro.
Così ogni origine raccontata tesse la trama di ciò che ogni presente immagina di essere. Ecco perché le città non nascono mai una volta soltanto. Napoli di certo è nata più volte. Non c’è racconto che non le assegni quanto meno due fondazioni. Quella vecchia, che è venuta dopo nel ricordo, l’ha voluta sirena, Partenope.
Si dice che fosse un uccello con il volto di donna. Il canto suo e quello delle sorelle seducevano gli uomini.
Li convincevano a morire.
Cantava l’amore il loro canto.
L'amore che è quando per la prima volta sentiamo che qualcosa manca.
Mancanza è ciò che racconta la natura essenziale di quell’animale che diviene uomo solo fuori di se stesso, negli altri, che sono i vivi, i morti e i futuri. Si tratta della radice che rende ogni uomo sempre e solo parte di qualcosa di più grande, di sacro. La mancanza è allora la radice che non muore con la morte, che redime la morte. La nostra società non ama la mancanza. Preferisce chiudere anche l’amore nel carcere di un cuore solo.
Cantava allora la mancanza quel canto. E chi lo ascolta sente che nulla vi è che possa trattenerlo dentro al corpo, è più potente la voce che chiama fuori, che chiama altrove.
Se Partenope morisse per via di Ulisse o di Orfeo che seppero resistere al canto suo e delle sorelle, non importa.
Accadde. E Partenope non fu più sirena, divenne piazza, strade, uomini e case.
La prima strada che fu è – forse – su questa altura, ncopp’ ‘e muntagnalle…
Carmela Covino
Primo racconto
Lo abbiamo seguito Antonio, che saliva sicuro per Monte di Dio. Ci ha portato a vedere quella che una volta è stata la sua scuola media. Ci ha indicato con il dito la tapparella che nascondeva la sua vecchia classe. Adesso non è che una casa, ma Antonio non la vedeva mica. Rideva dicendo di un vecchio dispetto ad una professoressa di matematica e non lasciava lo sguardo, neppure quando una macchina è venuta fuori dal cancello. In certo modo, accade sempre.
I fatti paiono prendere una forma solo quando non ci sono più, quando si muovono negli occhi di chi non c’era, mentre ne stiamo dicendo.
Ci siamo fermati in un forno – c’era anche allora – ci ha detto Antonio. E con allora intendeva quando lui andava a scuola. Non è cambiato, insisteva. Uguale ad allora. Ci siamo entrati e sulla sedia davanti all’entrata, a lato della scritta che chiama il forno con la data antica in cui è cominciato, era il signore del pane - Guariniello. Ci ha raccontato con tanta fierezza del tempo della sua famiglia, con il tono che Napoli riserva ai suoi artigiani e mercanti antichi, che acquistano un’eleganza cavalleresca e aulica, che rivendica da chiunque abbia meno anni una certa deferenza.
Antonio ha la mia età più o meno, ma parlandogli è sembrato un ragazzino. Anche ha contato che avesse deciso di mostrarci dov’è che andava con i compagni quando si decideva di saltare la scuola. I genitori non lo sapevano. Dovevano nascondersi per non essere scoperti, tanto c’era sempre tra i compagni qualcuno capace a rassomigliare la firma di qualche padre o madre per giustificarsi il giorno dopo. Adesso non si può più. Pure quei giorni saltati, che si rassomigliavano tutti per l’urgenza di libertà proibita da cui ora si lasciano vestire, pare che rendano più vivo il ricordo del tempo in classe. Interrompevano un ritmo, come il silenzio, la pausa, parlando, che è il respiro del suono, quello che gli consente potenza.
Quella volta, la scuola per lui – per noi - era il carcere, l'obbligo. Non avrebbe saputo dire cosa gli spiacesse di più, i compiti, svegliarsi presto... ma non si trattava di quello, per lo meno, non soltanto. La scuola era il tempo che segnava il nostro tempo. Era il suo spazio che ci faceva credere che senza saremmo stati liberi. Ci voleva coraggio e sfrontatezza a saltare la scuola al modo di Antonio e dei compagni.
Lo ho invidiato. L’ho visto correre fino alla Chiesa dell’Immacolatella a Pizzofalcone. Da qui c’è un muro abbastanza alto perché nessuno li vedesse da giù, da Santa Lucia e dal Pallonetto, dove stavano le madri. E qualche volta lo stesso si affacciavano e guardavano la vita di giù senza di loro, anzi con loro che avrebbero dovuto stare a scuola. E deve essere stata bellissima – a pensarla adesso – la paura che un occhio, per caso, si fermasse a guardare verso di loro.
Antonio ha telefonato a sua madre e le ha chiesto di affacciarsi al balcone. Lei lo ha fatto. Ci ha visti. Ci ha salutati. Avrebbe potuto vederlo anche allora.
Ma non restavano a lungo affacciati. Pochi passi e c’erano i giardini nel tufo. Adesso ci sono gli operai. Costruiscono un ascensore. Lo costruiscono da tanti anni. Ci dicono di fare attenzione. Non si potrebbe passare, ma passiamo e ci fermiamo con loro. C’è il mare e c’è il golfo ed è retorico dirlo, è straziante la bellezza di questo luogo. Sarebbe più bello – dicono – non fosse tutto morente. La città pare avere lasciato incustodito questo suo spazio. Come se i lavori in corso avessero lasciato che se ne dimenticasse. Ma l’abbandono mi affascina. Si sente ancora l’eco dei passi di ciò che è stato e che non riesce a finire. Come se la vita di prima non avesse ancora permesso a queste strade di prendere un’altra ragione.
Qui Antonio si nascondeva con la sua prima innamorata. C’è ancora dove c’era lo spazio per i baci. E più sopra, c’è il campo di pallone, che sembra un teatro dove si affaccia il vecchio Archivio militare. Chissà che una volta qui – dove c’è stata la casa di Lucullo e un tempo la vecchia acropoli - non ci fosse davvero lo spazio per un teatro. Un gabbiano ci vola vicino. Antonio si è arrampicato in alto. Ci salivano sempre, bambini, ci ha spiegato. È pericoloso salirci così come è pericoloso giocare a calcio su quest’aia, piena di dislivelli. Non ci avrei lasciato giocare i miei figli – ci ha confessato. Lui ci ha giocato, invece.
Ecco queste strade non sono più adatte alle nostre paure. Sopravvivono a vite che sono cambiate. Antonio ci pensa e, forse, non gli piace neppure ad immaginarsi questi tufi senza più l’erbaccia e senza più questa loro mancanza. Si, perché la vita che gli prepariamo è quella dell’ascensore, che ripulisce l’abbandono, ripulisce la mancanza di chi non c’è più. Sfratta i fantasmi. Quando Antonio giocava qui, invece, c’erano gli uccelli di Lucullo, c’erano gli uomini – quelli liberi ed i servi – i bambini – ecco anche Antonio bambino: tutti, ci sono tutti. Se ne sente l’assenza. L’abbandono è questo, è lo spazio dell’assenza. Ma sono i dubbi di ogni restauratore, come preservare qualcosa conservando la vecchiezza. Si può conservare la morte?
Ho paura – confesso – che sia la nostra presenza a profanare la bellezza anche qui – adesso -, a profanare il passato. Lo sguardo del mondo che ci portiamo dentro – temo – che non sappia che vedere nella bellezza – finanche in quella del mare e del golfo – il valore pesante come di una merce qualsiasi al mercato. Ed è il modo in cui guardiamo le cose che le profana, sempre.
Ogni oggetto, nella nostra società, si trovi in un museo o in una piazza o in una casa privata, è sradicato da un valore che non sia immediatamente utile. E allora noi che siamo liberi dal passato, dalle storie dei nostri padri, noi siamo l’espressione dell’illusione più pervasiva del nostro mondo: che ognuno di noi sia responsabile di se stesso, libero dagli altri nel passato e nel futuro, ognuno di noi autonomo nelle sue scelte e nelle sue azioni. Tutto stabilito in codici civili e uguali che ci liberano da ogni dipendenza. Nulla ci è sacro, neppure la morte.
Ma resta, forse, la possibilità che un giorno avvengano uomini che siano gli dei per il passato, coloro che quel passato possano redimere, divenendo l’altrove, l’al di là, di coloro che hanno vissuto.
Il tufo invecchia e muore e, consumandosi, annuncia la sua morte. E noi?
Ogni società muore in maniera diversa. E tragica è, forse, la morte per noi perché crediamo che la vita si esaurisca in un corpo solo.
Ma sono parole impossibili, faticose e allora smettiamo di dirne. Scendiamo a Santa Lucia. Lungo le rampe di Pizzofalcone troviamo Villa Ebe – due volte bruciata - e poi le case nelle grotte di tufo e un uomo speciale Pasquale Della Monaco, che ci invita ad entrare nella sua grotta. Ci parla a lungo. Ci dice della vita di Lamont Young, l’architetto che ha costruito per Napoli castelli incantati moderni. È felice delle domande, ci invita a tornare. È tardi e Antonio si affretta, cammina veloce, vuole ancora mostrarci, stavolta da giù, le grotte dove, dopo Natale, nascondevano gli abeti che avrebbero bruciato a Sant’Antuono. Incontriamo alcuni suoi amici. C’è un tale, Vittorio, davanti alla Chiesa – Santa Maria della Catena – ed insieme con il sacrestano ci raccontano due o tre versioni del nome che porta la Chiesa. Dice che c’è una Chiesa gemella a Palermo. Non trovano accordo le storie, ma questa è una madonna potente. A lei si rivolgono in molti per avere le grazie. Vittorio faceva il borsaiolo, ma ci assicura che ha smesso con il furto. Ha aiutato più volte Antonio bambino a nascondere gli alberi. Li nascondevano perché i ragazzi degli altri quartieri non li rubassero. C’era una gara per il fuoco più lungo. Non era importante quanto fosse grande il fuoco, ma quale bruciasse più a lungo e, per questo, serviva certo che fosse grande – a questo si deve che i ragazzi cercassero nascondigli e, al contempo, andassero in cerca dei nascondigli degli altri – ma ciò che contava è che non arrivassero i vigili a spegnere il fuoco. Anche uno grande avrebbe finito di bruciare presto, in quel caso. Il fratello di Vittorio era un vigile. Torno a girarmi e vedo questo monte da sotto con tutti i suoi occhi di grotte. Nessuno sguardo può essere puro degli occhi del mondo cui appartiene. Nessuno guarda da solo. Guardiamo sempre con gli occhi di chi prima ha già visto.
Quelle grotte un tempo erano state abitate.
Adesso aspettano…
Carmela Covino
Carmela Covino è nata il 9 gennaio 1981 a Benevento. Ha studiato filosofia a Napoli, con un intermezzo a Berlino. Ha svolto il suo dottorato a Salerno. Insegna storia e filosofia in un liceo. Ha pubblicato qualche articolo e una monografia. Ha collaborato con Alice Rohrwacher alla scrittura della sceneggiatura di due lungometraggi (una Palma d’oro a Cannes 2018) e di un mediometraggio (candidato agli Oscar 2023). Prima aveva collaborato con altri amici, sempre scrivendo e tentando di costruire insieme qualcosa che avesse la forma del loro incontro.
Napoli: un ritratto … dei ritratti (*).
“Zeusi scelse cinque modelle per il ritratto di Elena
perché la pittura rappresentasse
ciò che di più perfetto era in ciascuna di esse”.
Plinio, Nat. Hist., XXXV, 64.
… Dopo il libero e glorioso reggimento del ducato, la Napoli sveva, angioina, aragonese, la Napoli del Vicereame, seppellì per sempre la Napoli greca e romana; prìncipi e re stranieri dovevano pensare a difendere la terra e il porto con nuove mura di cinta, con torri e castelli, o a innalzare regge che fossero nello stesso tempo palagio e fortezza … Quando verrà Carlo di Borbone … per Neapolis sarà troppo tardi. La vecchia città costretta a svilupparsi entro la ferrea cinta delle mura greche, medievali e aragonesi, era già impenetrabile, già all’estremo della sua saturazione edilizia e demografica, e re Carlo abbandonerà il cuore della città e passerà decisamente al risanamento della periferia. La Napoli patrizia e la Napoli plebea, addensata l’una accanto all’altra, avevano oramai invaso ogni spazio; occupata la vasta area dell’agorà, incorporati il grande Teatro e il minore Odéon nei monasteri, nei fondaci, nei palazzi; distrutto quel che era il massimo vanto e gloria della città, il Ginnasio e lo Stadio a cui convenivano spettatori d’ogni parte d’Italia e del mediterraneo, rinnovando i fasti dei grandi giuochi panellenici. I lavori del Risanamento, sotto l’assillo dell’epidemia del colera del 1885, incisero brutalmente la Napoli greca e medioevale… Scompare la città greca nei suoi edifici, nelle sue piazze, nei suoi monumenti, ma resta il substrato della sua rete stradale; restano intatte le vecchie arterie dei decumani e dei cardines che dividevano l’abitato in insulae, in quartieri e in regioni; unico rispetto la strada, il vico, l’angiporto; il resto è spazio per vivere, dal contatto con il lastrico al terrazzo aereo sopra i tetti… Lungo quelle stesse vie dove potevano sorgere umili case di uno o due piani al più, come se ne scorgono a Pompei e ad Ercolano, si elevano case e palazzi di 6-7 e più piani: portali durazzeschi e secenteschi aprono gli ampi battenti su strade anguste come vicoli: grandiosi prospetti architettonici capaci solo di aprirsi nell’ampio respiro di una piazza, sono soffocati nell’ombra di un chiassuolo. Immaginiamo per un momento un quartiere di Pompei con queste case, questi palazzi, queste cortine alte di mura che respirano a fatica da cento finestre, e misureremo in un attimo, alla distanza di millenni, quel che è stato il fenomeno della trasformazione, dell’accrescimento, della saturazione della Napoli moderna sulla Neapolis greca …
… Fantastiche relazioni di viaggio hanno dipinto la città. In realtà essa è grigia: un rosso grigio o un’ocra, un bianco grigio. E tutta grigia contro il cielo e il mare. Non ultima, questa circostanza ti toglie ogni piacere. Poiché chi non ha occhi per le forme, qui ha poco da vedere. La città è come uno scoglio. Vista dall’alto, dove le voci non arrivano, dal Castello di San Martino, giace senza vita nel crepuscolo, concresciuta con la roccia. Soltanto una striscia di spiaggia si stende piana; dietro, gli edifici si ammassano l’uno sull’altro. Casermoni di sei o sette piani, su basamenti sui quali si arrampicano le scale, sembrano grattacieli in confronto alle ville. Perfino nel basamento di roccia, là dove raggiunge il mare, sono state ricavate delle grotte. Come in certe immagini di eremiti del Trecento si scorge qua e là nella roccia una porta. È aperta, così si intravvedono insieme, in un grande scantinato, giacigli e depositi di merci. Più oltre dei gradini conducono al mare, a taverne di pescatori impiantate in grotte naturali. Di sera filtra di là verso l’alto una luce fioca e una fievole musica.
… Struttura e azione trapassano l’una nell’altra in cortili, arcate e scale. Si lascia che ogni cosa conservi la capacità di diventare teatro di nuove, impreviste costellazioni. Si evita che le cose abbiano uno stampo definitivo; nessuna situazione appare così come essa è, pensata una volta per tutte, nessuna forma le impone: “così è non altrimenti”. Così nasce qui l’architettura, questo elemento quanto mai vincolante del ritmo di una comunità: civilizzata, privata e ordinata soltanto nei grandi alberghi e magazzini del porto; anarchicamente intricata e paesana al centro, in cui sono state tagliate già da quarant’anni grandi arterie. E soltanto in queste strade la casa è la cellula dell’architettura cittadina in senso nordico. Nell’interno invece essa è l’isolato, tenuto insieme ai quattro angoli dalle immagini murali della Madonna che lo reggono come fossero chiavi di ferro. Nessuno capisce nulla dei numeri delle case. Negozi, fontane e chiese sono i punti di riferimento. E non sempre facili, perché la chiesa napoletana normalmente non si pavoneggia su una grande piazza, visibile da lontano, con corpi trasversali, coro e cupola. Se ne sta nascosta, incassata; soltanto in pochi luoghi è dato di vedere alte cupole, né è facile trovarli; impossibile distinguere la massa della chiesa dagli edifici profani vicini. Il forestiero le passa accanto senza vederla. La porta modesta, spesso soltanto una tenda, è l’ingresso segreto per chi sa. Basta fare un passo dal caos di sudici cortili e si entra nella pura solitudine di un alto interno di chiesa bianco. La sua esistenza privata è lo sbocco barocco di un’intensa dimensione pubblica. Giacché essa non si manifesta fra le pareti domestiche, tra moglie e figli, ma nella devozione o nella disperazione … In simili siti si distingue a stento dove si continua ancora a costruire e dove è già sopravvenuta la rovina, perché nulla viene completato e portato a termine … Gli edifici sono utilizzati come palcoscenici popolari. Tutti si articolano in una infinità di ribalte simultaneamente animate: balcone, ingresso, finestra, passo carraio, scala, tetto sono scena e palco nello stesso tempo. Anche l’esistenza più misera è sovrana, nell’oscura duplice coscienza, nella sua totale depravazione, di concorrere alle irripetibili scene della strada napoletana e nella sua miseria di assaporare l’ozio, di entrare nel grande panorama. Ciò che si svolge sulle scalinate è un’alta scuola di regia. Mai completamente allo scoperto, ma nemmeno chiuse come nei cupi casermoni del Nord, le scalinate precipitano fuori dalle case a segmenti, svoltano a un angolo e spariscono per balzare di nuovo fuori…
… Quando giungo a Napoli dopo aver percorso la strada di Terracina e di Gaeta, che costituisce il passaggio obbligato per chi vuole comprendere l’originalità assoluta dell’antico Regno delle Due Sicilie, mi sento preso “per incantamento”, ecco il verbo esatto, preso, cioè strappato alla mia condizione anteriore, ai miei gusti, alla mia cultura, alle mie ricchezze di Europeo allevato nel rispetto della bellezza, alle mie costruzioni interiori pazientemente edificate nel corso degli anni di educazione e di formazione; sì, mi sento spogliato di tutto ciò in un baleno, sottratto alla mia identità troppo precisa e precipitato in una nebulosa di sensazioni indistinte, proprio come l’incontro di due persone destinate ad amarsi priva entrambe di ciò che credevano di essere e di ciò che si sforzavano di essere, le spossessa del loro stato civile e le denuda all’improvviso, lasciandole sguarnite, indifese, più disarmate di un bambino. L’infanzia… Se affermo che ci si deve accostare a Napoli venendo da Cuma, spero si capisca che non voglio rendere omaggio a Virgilio o alla Sibilla, ma che consiglio la visita alla grotta ed il percorso del sotterraneo come una prova iniziatica, purificatrice, come un ritorno alla matrice nuda dell’infanzia. Se ci fosse una porta per entrare a Napoli, vorrei che sul frontone spiccasse questa iscrizione: “Qui soltanto i bimbi possono entrare” … Ebbene, sì! I deliri estatici nelle chiese barocche, come i vagabondaggi senza fine a Spaccanapoli … appartengono indiscutibilmente a ciò che le persone per bene, i benpensanti della psicologia moderna, chiamano una “regressione”. A Napoli tutto mi ricorda le emozioni della prima infanzia, la gioia di annusare, di toccare, di guardare, di ascoltare, di godere, attraverso tutti i miei sensi, di una realtà mirabilmente varia e saporita, senza pormi degli interrogativi, la felicità di essere completamente me stesso, di percepirmi come una totalità di sensazioni, l’euforia esultante di ignorare il tempo, gli orari e tutti i doveri assegnati alla ragione, alla coscienza, alla maturità… Tutte le città hanno dovuto sottostare a questa legge ed “evolversi”, diventando grandi città. Tutte le città, ma non Napoli che ha ricevuto dagli dei il privilegio di rimanere eternamente nell’infanzia. Qual è la città che nel XVIII secolo era più brillante di oggi? Napoli. Qual è la città i cui più begli edifici sono stati raramente portati a termine? Napoli. Qual è la città la cui preoccupazione ultima è quella di adattarsi alle necessità della vita moderna? Napoli. Qual è la città che se ne infischia altamente di obbedire alle leggi della prosperità e dell’arricchimento? Napoli. Qual è la città che ha compreso le divine virtù della povertà, dell’ozio, del vivere alla giornata senza curarsi del domani? Napoli. Qual è la città che non maturerà mai, perché ogni risultato verrebbe sentito come una degradazione ed ogni riuscita come un impoverimento? Napoli. Qual è la città in cui può capitare di tutto, come ai tempi benedetti dell’infanzia? Napoli.…
… Vi sono alcuni luoghi del mondo, come Napoli …, dove la storia si è arrestata, è rimasta irrealizzata. Non si è evoluta gradualmente dispiegando tutte le proprie potenzialità, com’è accaduto a Londra a Parigi o a New York, ma a un certo momento (nel passato prossimo o in uno più lontano) per ragioni note o (per lo più) misteriose, c’è stato un blocco. Il blocco non riguarda soltanto la storia degli eventi, ma proprio il processo di crescita … riguarda la visione del mondo, il sentimento della vita, che si chiudono nell’autocontemplazione, così tipica di quei luoghi dove tutto è già accaduto, e da cui tutto sembra oramai accadere sempre altrove … E così un napoletano quando è portato ad indagare col cuore e con la mente su queste cose, ritrova nella propria vicenda personale, nel proprio “destino” individuale, l’interferenza della Storia non compiuta della sua “tribù”; ritrova in tante forme diverse e sfuggenti, quel blocco. E può superarlo con la fantasia o con l’artificio. Deve concludere, nientedimeno, dentro di sé e da solo, quell’evoluzione che storicamente è rimasta inconclusa … Se penso al mio rapporto con Napoli mi sembra di poterlo esprimere soltanto per immagini. E la prima è quella di Palazzo Donn’Anna …, antico palazzo seicentesco costruito da un viceré spagnolo, e poi abbandonato alle devastazioni e all’incuria che lo hanno ridotto nello stato in cui è ora: una maestosa mole cadente e quasi una rovina, ma bellissima, al cospetto del mare… Con quelle sue mura corrose di tufo giallastro, crivellato di nicchie vuote e finestre cieche, gli archi aperti sul golfo, le grotte invase dall’acqua, e tutto il chiaroscuro della facciata scavata da vento e salmastro, assume a volte l’aspetto di uno scoglio o di una rupe appena emersa dalle profondità marine, piena di anfratti e incrostazioni calcaree, licheni e molluschi litofagi. E così appare, a prima vista, come qualcosa di non ben definito e non-finito, che appartiene ora alla Storia, quando vien fuori il corrusco austero barocco dell’architettura, ora alla Natura quando quasi si confonde con la linea della costa e diventa un elemento del paesaggio. Questa ambiguità, questo essere a mezzo tra la Natura e la Storia, è anche il segreto contrasto dell’anima napoletana …
… Un paese misterioso, dove non la ragione, non la coscienza, ma oscure forze sotterranee parevano governare gli uomini, e i fatti della loro vita… Napoli … è la più misteriosa città di Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. E’ la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della città antica. Napoli è una Pompei che non è mai stata sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Non potevate scegliere un luogo più pericoloso di Napoli, per sbarcare in Europa… il rischio di affondare nella melma nera dell’antichità, come in una sabbia mobile. Se foste sbarcati in Belgio, in Olanda, in Danimarca, o nella stessa Francia, il vostro spirito scientifico, la vostra tecnica, la vostra immensa ricchezza di mezzi materiali, vi avrebbero forse dato la vittoria … sullo stesso spirito europeo, su quell’altra Europa segreta di cui Napoli è la misteriosa immagine, il nudo spettro. Ma qui, a Napoli, … le vostre macchine, fanno sorridere. Ferraglia… Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto, a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. E’ il destino dell’Europa di diventar Napoli…
Paolo di Caterina
(*) Questo scritto è composto, integralmente, da cinque brani tratti, rispettivamente, da:
AMEDEO MAIURI, “Napoli” in Passeggiate campane, 1938;
WALTER BENJAMIN e ASJA LACIS, “Neapel”, Frankfurter Zeitung, 19.8.1925;
DOMINIQUE FERNANDEZ, “Lettera d’amore a Napoli” in Il viaggiatore amoroso, 1982;
RAFFAELE LA CAPRIA, L’armonia perduta, 1986;
CURZIO MALAPARTE, La pelle, 1949.


